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La responsabilità civile del medico
Avvocato Gennaro Giannini

Ciascun uomo è titolare di diritti fondamentali e inviolabili, riconosciuti e garantiti dallo Stato. Per questa ragione, qualsiasi azione che non rispetta l'inviolabilità della persona, è da considerare azione illecita, non tollerata dalle leggi. Così, per fare qualche esempio, non è lecito uccidere o ferire o percuotere un uomo, o comunque procurargli una lesione qualsiasi.

In definitiva, l'integrità psicofisica dell'uomo va rispettata in ogni momento e in ogni situazione.

Sennonché è oggettivamente impossibile curare un malato senza violarne l'integrità psicofisica: è evidente che il chirurgo, il quale si accinga a un intervento demolitore, oppure il medico internista che, mediante l'uso dei farmaci, debba manipolare il paziente, almeno all'apparenza non rispettano l'uomo.

Il rispetto dell'individuo bisognoso di cure - di qualsiasi tipo di cure - si realizza in un altro modo, e cioè ottenendo preventivamente il suo consenso, dopo averlo adeguatamente informato.

Si legge al1'articolo 32 della nostra Costituzione che nessuno può essere sottoposto a un trattamento sanitario contro la sua volontà; regola ribadita dall'articolo I della Legge 13 maggio 1978 nr. 180, nonché, più in generale, dall'articolo 34 della Legge 23 dicembre 1978 nr. 833,1-stitutiva del Servizio Sanitario Nazionale.

Ciò che conta nel rapporto ospedale-medico-paziente o soltanto medico-paziente è dunque il consenso informato, ossia l'adesione volontaria dell'ammalato alle cure proposte, previa informazione circa i costi e i benefici del trattamento sanitario. A questo riguardo, l'informazione è essenziale, giacché il consenso di un soggetto che non sia stato adeguatamente informato, non ha valore.

Soprattutto in questi ultimi tempi, la Corte Suprema di Cassazione non perde occasione per ribadire questi concetti: l'obbligo d'informazione riguarda anche i rischi specifici delle singole fasi del trattamento sanitario; il medico deve informare il paziente dei possibili benefici del trattamento, delle modalità d'intervento, dell'eventuale possibilità di scelta fra cure diverse o diverse tecniche operatorie e, infine, dei rischi prevedibili di complicanze in sede postoperatoria (sentenza nr. 9705 del 6 ottobre. 1997). Il medico è tenuto a comunicare al paziente anche l'esito delle indagini (per esempio, dell'ecografia), poiché tale informazione è una caratteristica essenziale della prestazione sanitaria (sentenza nr. 3599 del 18 aprile 1997); il chirurgo estetico deve informare il paziente non solo e non tanto dei rischi in genere dell'intervento programmato, ma anche delle concrete possibilità di conseguire il risultato sperato (sentenza nr. 4394, emessa l'8 agosto 1985 e sentenza nr. 10014, emessa il 25 novembre 1994).

Occorre il consenso informato anche per le trasfusioni di sangue, di emocomponenti e di emoderivati, poiché tale pratica terapeutica non è esente da rischi (articolo 19 del D.M. 15 gennaio 1991); per converso, occorre il consenso informato anche per il prelievo ematico, che non può essere imposto (sentenza della Corte Costituzionale n0 238 del 9 luglio 1996).

Tutto ciò per dire che l'acquisizione del consenso informato non e una semplice formalità burocratica da sbrigare se e quando se ne abbia voglia, lasciando l'incombenza - nella migliore delle ipotesi - all'anestesista, il quale tutto potrà dire sull'anestesia ma nulla di più; è invece la condizione imprescindibile per trasformare un atto normalmente illecito (la violazione dell'integrità psicofisica) in un atto lecito. Per questa ragione, a rigor di termini, non basta neppure far sottoscrivere frettolosamente al paziente, come accade nella prassi ospedaliera, un testo scritto, scarsamente comprensibile, circa le terapie che gli verranno praticate, ma è necessario che il paziente, reso consapevole del proprio stato di salute, sia posto nella condizione di valutare i rischi e i benefici del trattamento cui verrà sottoposto, per poi decidere liberamente se accettare o rifiutare il trattamento stesso (non bisogna dimenticare, infatti, che il paziente ha anche il diritto di fiutare le cure).

Si badi, poi, che l'obbligo di ottenere il consenso informato del paziente è del tutto autonomo rispetto alla riuscita del trattamento sanitario, e perciò il medico, che abbia omesso di raccogliere il consenso informato, incorre in responsabilità anche se la prestazione sanitaria viene eseguita in concreto senza errori (sentenza nr. 6464, emessa dalla Corte di Cassazione l'8 luglio 1994).

La regola del consenso è di difficile, se non impossibile, applicazione in almeno tre casi: quando il paziente è minore d'età; quando il paziente, per malattia mentale, è incapace di ricevere l'informazione e di esprimere un valido consenso; e quando il paziente, pur essendo un soggetto capace, versa in una situazione tale da non poter essere interpellato (così avviene, per esempio, nelle situazioni di emergenza in pronto soccorso).

Nel primo caso, fermo restante il principio generale per il quale il, consenso ai trattamenti sanitari dev'essere espresso dal diretto interessato (il diritto alla salute è personalissimo e la sua tutela non può essere affidata ad altri), il consenso va richiesto a chi esercita la patria potestà (e cioè entrambi i genitori, ovvero al coniuge affidatario del figlio, in caso di separazione); nel caso in cui entrambi i genitori siano premorti ovvero siano stati privati della patria potestà, il consenso potrà essere espresso dal tutore. Se però il paziente, malgrado l'età minore, possiede capacità critiche e volitive allo stesso modo di un adulto, è necessario il suo consenso e, se tale consenso contrasta con la volontà dei genitori, prevale la volontà del paziente, previo parere del Giudice tutelare.

Nel secondo caso ossia nel caso di malattia mentale la quale richiede un trattamento sanitario obbligatorio, ai sensi della Legge 13 maggio 1978 nr. 180, il medico può procedere senz'altro alla terapia, con il consenso del tutore (se c'è), ma deve "svolgere iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi è obbligato".

Quanto, infine, al terzo caso, ossia quando il paziente non è in grado di esprimere il consenso perché versa in una situazione di emergenza, indipendentemente dalla volontà dei parenti, il medico può agire, perché giustificato dallo stato di necessità delineato dall'articolo 54 del Codice Penale, per il quale ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare una persona dal pericolo attuale di un danno grave; pericolo da lui non volontariamente causato né altrimenti evitabile, e sempre che il fatto sia proporzionale al pericolo, e cioè che la cura sia adeguata.

Resta da dire circa la prova del consenso. Come si è detto, la sottoscrizione di una scheda da parte del paziente può non essere sufficiente; tuttavia, se il medico afferma di aver informato il paziente, mentre quest'ultimo nega la circostanza, l'esibizione della scheda sottoscritta vale a spostare l'onere della prova, nel senso che dovrà essere il paziente a dimostrare che, nonostante la sottoscrizione, egli non è stato adeguatamente informato.

Tutto nel caso in cui il paziente si rivolga all'Ospedale, e l'Ospedale incarichi un medico per la cura, quanto anche nel caso in cui l'ammalato si rivolga direttamente al medico, il professionista è responsabile - ed è perciò tenuto a risarcire il danno - se commette un errore per colpa.

La colpa si può manifestare già in una non ponderata accettazione dell'incarico, quando si abbia la consapevolezza di non possedere la preparazione necessaria per eseguirlo (sentenza n0 2428, cui essa dai la Corte di Cassazione il 13 maggio 1991) e poi durante tutto l'iter della prestazione (diagnosi, cura, assistenza successiva al trattamento).

Nel concetto di colpa confluiscono diversi comportamenti: come la negligenza, quando il medico agisce con trascuratezza o disattenzione o con inadeguata preparazio (sentenza nr. 2428, e messa dalla Corte di Cassazione il 26 marzo 1990); come l'imprudenza, quando il medico agisce con temerarietà sperimentale e non valuta adeguatamente il rapporto tra rischi e benefici; e come l'imperizia che, per il disposto dell'articolo 2236 del Codice Civile, è fonte di responsabilità attenuata, nel senso che il medico è responsabile solo per colpa grave, e cioè quando dimostri di non conoscere le nozioni fondamentali e di ignorare quegli aggiornamenti clinici, diagnostici e terapeutici già sperimentati e consolidati nel la prassi, mentre non è responsabile (per imperizia) quando il caso concreto presenti caratteristiche di straordinarietà o eccezionalità e non è stato ancora adeguatamente studiato nella scienza o sperimentato nella pratica (sentenza nr. 6937, emessa dalla Corte di Cassazione il l agosto1996).

Normalmente la colpa del medico deve essere provata da chi l'afferma, non essendo sufficiente costatare l'insuccesso della cura. In alcuni casi particolari, tuttavia, la colpa è presunta ed è il medico che deve dimostrare come il risultato sperato non sia stato raggiunto per causa a lui non imputabile: ciò avviene quando il medico promette un risultato (per esempio, l'installazione di una protesi dentaria, oppure di una protesi ortopedica), e quando la prestazione medica è considerata di routine, ossia di non difficile esecuzione.

Per concludere, è finita l'epoca in cui si considerava la prestazione medica come attività sacra e non censurabile.

Tuttavia, come osservò la Corte Costituzionale (sentenza nr. 166 del 28 novembre1973), la valutazione del comportamento del medico deve contemperare "due opposte esigenze: quclla di non mortificare l'iniziativa del professionista col timore di ingiuste rappresaglie da parte del cliente in caso d'insuccesso e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista".

(da Bollettino Ordine dei Medici della Provincia di Milano Commissione di studio "RESPONSABILITA' PROFESSIONALE")

 

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